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Pubblicato il 28 apr 2023
Beatrice Rubini
Personal Solutions & Cybersecurity – CRIF Executive Director
Nella Fig. 1 è riportato il momento del crollo in Borsa, fra la fine del 2007 e la fine del 2008. Un momento simbolico, perché (anche se non fu la causa diretta del crollo) è nel 2007 che, con il lancio dell’iPhone da parte di Steve Jobs, iniziò l’era degli smartphone (ora nelle mani di oltre 4 miliardi di persone). Ed è simbolico anche del passaggio fra due ere diverse che sia stata Netflix a prendere il posto di Kodak, quando essa nel 2010 fu estromessa dallo S&P 500, il notissimo indice di Borsa statunitense di cui essa faceva parte sin dalla creazione dello stesso nel 1957.
Ritornando a Google e all’intelligenza artificiale, e ricordando (se mai ce ne fosse bisogno) che sto parlando di uno scenario del tutto ipotetico, perché mi è venuto in mente questo paragone con Kodak e con la fotografia digitale? Per due ragioni, sostanzialmente:
- perché Google, come a suo tempo Kodak, conosce perfettamente (avendo addirittura avuto un ruolo nel crearla) la tecnologia basata sull’AI che potrebbe prendere il posto di quella attuale;
- perché con l’eventuale avvento della nuova tecnologia Google rischierebbe non solo di non avere differenziali competitivi significativi rispetto alla concorrenza (come avvenne per Kodak con la morte della pellicola), ma cadrebbe – o si ridimensionerebbe significativamente – la possibilità di utilizzare la ricerca per alimentare il digital advertising.
E ovviamente non sarebbe facile per Google stessa trovare una sorgente alternativa di ricavi e ancor più di utili, che le permettesse non tanto di sopravvivere, ma di rimanere – come è posizionata ormai da molti anni – ai vertici mondiali per capitalizzazione (è ora quarta alle spalle di Apple, Saudi Aramco e Microsoft) e per utile netto (è quarta alle spalle di Saudi Aramco, Apple e Microsoft).
Ma al momento non esiste alcuna certezza, per i rischi di affidabilità visti in precedenza, sul quando e sul se questo salto di tecnologia potrà verificarsi.
- Nel frattempo il digital advertising si affolla di nuovi competitori
Le vie al digital advertising sono infinite, si potrebbe dire scherzando, sia per quanto concerne l’origine e la raccolta dei dati sia in relazione alle modalità di erogazione dei digital ads. E il contesto si presenta molto dinamico:
- fragile da un lato, se si guarda non solo ai possibili problemi di Google discussi in precedenza, ma anche ai danni causati a Meta dal cambio di politica sulla privacy di Apple (che le ha sottratto l’accesso a una grande mole di dati) e dalla crescita di Tik Tok nei social ai danni di Facebook e Instagram;
- sempre più affollato dall’altro lato, per l’entrata in campo di nuovi attori che – comprendendo le potenzialità di sfruttamento dei dati che hanno la possibilità di raccogliere – si (ri)organizzano per raccoglierli sistematicamente e per trasformarli in digital ads.
È su questo secondo punto, in particolare, che voglio soffermarmi. La Fig. 2 mette in evidenza come, accanto a un digital advertising basato sul search (ove Google fa la parte del leone) e uno basato sui social (con Meta protagonista), nei stia crescendo un terzo, basato sul retail, inizialmente solo su quello online (attivato da Amazon) ma ora anche su quello offline tradizionale. Walmart ad esempio, numero uno nella distribuzione tradizionale ma con una presenza significativa anche nell’ecommerce, si è fortemente impegnata negli ultimi anni nella raccolta sistematica di dati, sui clienti sia offline sia online, per sfruttare le sue potenzialità nel digital advertising. Ma anche Apple e Microsoft, alla perenne ricerca di nuove fonti di ricavi in assenza di innovazioni radicali e di nuovi breakthrough, sono in entrata nel comparto. Con il risultato, come si vede dalla Fig. 3, che la quota sul mercato statunitense dei due leader Google e Meta – in lento ma continuo declino da anni – è ora scesa sotto il 50 per cento, mentre è continuamente cresciuta la quota di Amazon.
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